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Fuoco disabitato

racconto di


accompagnato dalle immagini delle opere di



Non c'è vita che almeno per un attimo non sia immortale.

(Wislawa Szymborska)


È possibile determinare il punto di non ritorno della civiltà umana? Egon B. riuscì a calcolare il momento preciso in cui l’umanità sarebbe stata perduta. Artefice e spettatore di un passaggio irreversibile a un mondo diverso da quello conosciuto, in cui gli equilibri noti avrebbero lasciato spazio a dinamiche imprevedibili.

«A cosa stai pensando?» la voce di Katheline interrompe il silenzio. Egon è seduto a un tavolo di legno, una piccola lampada illumina decine di fogli su cui simboli si rincorrono come arabeschi in una moschea bianca. «A come si incurva lo spazio vicino a una stella.» Egon la guarda, sorride. Si alza, le si avvicina e la prende per mano, camminano verso il lucernario. Gli occhi di Katheline sono spalancati sul buio del cielo. «Siamo immersi in un universo la cui superficie si increspa; una creatura viva, pulsante, che si flette e si espande. Le stelle piegano lo spazio intorno a sé e i pianeti si muovono in queste pieghe, percorrendo orbite ellittiche. Amo l’ellisse perché è imperfetta, come l’uomo.» I loro volti sono così vicini da sfocarsi l’uno nell’altro. «Due fuochi ne reggono l’orbita: in un fuoco il sole, nell’altro, disabitato, si sente tangibile un’assenza. Forse per questo passiamo la vita a cercare il nostro sole nero, qualcuno che abiti quel fuoco, che ristabilisca la simmetria. Più l’attrazione tra i due soli è forte, più si avvicinano. Se riescono a compenetrarsi è creata la perfezione e l’ellisse torna a essere cerchio». «Kate, sei il mio sole nero».


Tree Mountain - A Living Time Capsule-11,000 Trees, 11,000 People, 400 Years, 1992-96, (420 x 270 x 28 meters) Ylojarvi, Finland © Agnes Denes


I loro visi si sfiorano, Egon le bacia gli occhi. «Hai mai pensato che quando si guarda il cielo si sta guardando indietro nel tempo? Verso un mondo che è già stato ma per i nostri occhi ancora non è». «Si, ci ho pensato. Ecco, io credo che quella sospensione tempo-luce ti resti dentro, capace di essere restituita. Sai donarmi quel tempo in più che l’universo ha lasciato nei tuoi occhi e io, in quel tempo, posso sostare. È un dono immenso». La luna appare, con la sua quiete sublime, i suoi mari basaltici e le sue terre alte, diffonde una luce densa che conduce all’origine della vita.

Egon e Kate restano così, con gli occhi fissi nel cielo e le mani intrecciate, ospitando nei propri silenzi la profondità del tempo.

«Ho sognato la Terra, la guardavo dallo spazio, come fossi stato un frammento di universo. La superficie coperta dalle acque era blu scuro, le terre emerse invece erano grigie, deserti senza vita. Anche l’atmosfera era diversa, più densa. Gridavo, ma non usciva nessun suono dalla mia bocca. Ti chiamavo. Dov’eri Kate? E io, dov’ero? Forse ero diventato parte di quella luce rimasta nell’universo dopo l’esplosione iniziale».

Il rumore della matita che solca il foglio scandisce i secondi, i minuti, un tempo che sembra avvolgersi su se stesso e poi srotolarsi. Le tapparelle in legno sono abbassate a coprire i tre quarti della lunghezza della finestra, storte, le listelle aggrappate l’una all’altra lasciano filtrare luce arancione che disegna sul soffitto binari senza meta. Egon traccia simboli su un foglio ma, per uno strano effetto ottico, sembra che siano proprio quei segni a guidare la sua mano, a scrivere il proprio spazio di esistenza. Si ferma. Prende in mano decine di fogli, li rilegge frettolosamente. No, non è fretta, è urgenza.


Cambiamenti climatici, acidificazione degli oceani,

riscaldamento globale, eventi climatici avversi,

alterazione dell’equilibrio degli ecosistemi,

scioglimento dei ghiacciai, inondazioni,

perdita della biodiversità, carestie, guerre per il controllo dell’acqua, emergenze sanitarie e sociali,

alterazione delle correnti,

inquinamento idrico,

perdita di foreste, migrazioni,

siccità,

morte.


Forse è così che si scopre, un giorno, di essere diventati esseri fragili, vittime e carnefici di un mondo violato, soffocato da un effetto a catena che si sarebbe potuto interrompere. Egon è immobile, legge la soluzione di un’equazione che non pensava di voler risolvere. Di dover risolvere. Un punto. Il punto di non ritorno dell’umanità. Si guarda le mani, sono sudate. Sente gocce di sudore attaccate al petto, passa la lingua sulle labbra. Sono aride. Improvvisamente sente il suo corpo in tutta la sua fisicità. Ha fame, non riesce a ricordare l’ultima volta in cui ha mangiato. Ha sete. Gli occhi bruciano.

È sicuramente la stanchezza che fa scendere lacrime dai suoi occhi, altre restano aggrappate alle ciglia come gocce di rugiada appese ai sepali di un fiore. Kate entra in casa, silenziosa. Le basta guardarlo, per capire. «Kate, rimangono dieci anni» Cammina verso di lui, i suoi piedi scalzi la fanno assomigliare a una piccola betulla in primavera. Lo guarda, gli accarezza il viso.

Ti porto nella lentezza,

nell’ancorarsi delle radici,

nei sussurri delle foglie. Ti porto nell’acqua,

nella sua assenza di forma,

nei suoi misteri nudi. Ci nascondiamo

nelle pieghe del tempo,

cerchiamo attimi e li nascondiamo nelle tasche

come sassolini colorati. Ci rincorriamo nelle curve dei sorrisi,

cadiamo nelle ombre, ci inchiniamo

davanti alla furia delle tempeste. E alla fine di tutto

guarderemo l’universo,

travolti dalla vertigine di mondi lontanissimi.

Ci sono candele in ogni punto della casa, bianche; sono accese perché ogni candela, con la sua luce tremolante, possa incantare i demoni. Al centro della stanza un’arpa attende le dita che sanno darle voce. Quelle dita bianche, sottili, che quando toccano le corde diventano musica. Katheline si inginocchia davanti all’arpa, la inclina appoggiandola sulla spalla, la musica si sfila dalle sue dita incorporandosi al mondo, diventando pioggia, oceano, fuoco.





Dieci anni dopo...

Una vecchia canta; è in piedi, ai margini di un bosco. Ha le mani giunte, appoggiate al petto, gli occhi chiusi, la testa inclinata verso il cielo. La sua vita sublima in canto, nell’attesa che la morte arrivi a scioglierle i lunghi capelli intrecciati, con la sensualità di un amante. Le sue rughe, che hanno donato rifugio alla vita, si svuoteranno.

Una tartaruga marina si lascia trasportare dalle acque, sta tornando nel luogo dove è nata, per nidificare. Non sa di essere l’ultima. Una rete da pesca tesa a pochi metri da lei ferma il suo volo leggero. I suoi occhi cercano invano una risposta, le zampe si muovono, se potesse si ritirerebbe all’interno della corazza, per non vedere. Resta solo l’assordante cigolio del suo carapace, a forma di cuore, che sfrega contro le maglie della rete.

Il mare ha invaso la città. I mosaici della basilica di San Marco brillano, riflessi nell’acqua. Il palco della Fenice riflette l’oro delle balconate vuote, l’acqua muove le poltrone rosse come un direttore d’orchestra impegnato a dirigere un perenne concerto senza pubblico. Un pianista è rimasto. Le dita, piene di lacrime, scivolano sui tasti. Granelli di polvere volteggiano scintillando nell’aria come ballerine bianche sollevate sulle punte. L’isola di San Michele è completamente sommersa; il cimitero giace silenzioso, nella sua immobile perfezione.

"Una tartaruga marina si lascia trasportare dalle acque,

sta tornando nel luogo dove è nata, per nidificare.

Non sa di essere l’ultima."


Nel Mare di Beaufort, a nord delle coste dell’Alaska e del Canada, la banchisa artica si è quasi interamente sciolta. Un orso bianco, magro e affamato, si lascia trasportare su un blocco di ghiaccio insieme ai cuccioli. Naufraghi, su una zattera alla deriva, i piccoli fanno capriole, ignari dello struggimento dei ghiacci e delle grida silenziose della madre. Il canto della vecchia si ode fino a qui; risuona nell’atroce bellezza dell’universo, nell’indifferenza delle aurore boreali che danzano sopra il declino di una civiltà delirante.

La Terra, lentamente, si spoglia del freddo e delle creature che la abitano, in una danza metamorfica si trasforma in un fuoco disabitato.
















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